LE STAGIONI DELL’AMORE: L’ETÀ CONQUISTATA

La sessualità è una sfera molto composita, non legata alla sola genitalità ma connessa con sentimenti ed emozioni, valori, giudizi, stereotipi e pregiudizi, norme culturali e giuridiche. Secondo l’Organizzazione Mondiale di Sanità la salute sessuale deve essere considerata parte integrante dello stato generale di un individuo. In qualsiasi fase della vita.

Solo negli ultimi decenni si è cominciato a parlare di sessualità della terza età, argomento prima poco trattato se non addirittura evitato. Le trasformazioni culturali e soprattutto  la variazione dell’aspettativa di vita lo hanno reso invece di estrema attualità.

Lo stadio avanzato della maturità adulta non comprende necessariamente la regressione sessuale; esso è al contrario un momento in cui attuare importanti esplorazioni di un nuovo potenziale sessuale. Infatti la sessualità nasce con l’individuo, ma attraverso varie fasi di sviluppo si connota e raggiunge di volta in volta livelli e mete diverse.

Alle fasi di infanzia, fanciullezza, pubertà, adolescenza, giovinezza ed adultità si usa oggi aggiungere la presenza di un lungo periodo caratterizzato da sessualità attiva post riproduttiva; in ambito sessuologico non si parla più di ‘terza età’, bensì di ‘età conquistata’ prima della senescenza. Con ‘età conquistata’ si intende quel periodo di 25-30 anni nel quale la sessualità non è legata alla riproduzione, ma ha ancora una grossa valenza di autorealizzazione e di rinforzo dei legami. Si tratta di quella fase di vita che per le donne si può facilmente identificare con il periodo successivo alla menopausa; nell’uomo non si può parlare di un analogo della menopausa femminile, ma dai cinquant’anni in poi si hanno variazioni ormonali che ugualmente mutano la sensazione soggettiva di soddisfazione sessuale.

Molti studi scientifici mostrano che in questo periodo vi può essere addirittura un miglioramento della sessualità. Infatti i meccanismi reattivi del corpo non scompaiono, ma semplicemente cambiano: vi è ad esempio un rallentamento della dinamica eccitatoria, nell’uomo si allungano i tempi di latenza, vi è una netta diminuzione della lubrificazione e così via. Facilmente questi mutamenti generano insicurezza e preoccupazione; spesso la donna non si percepisce più come oggetto di desiderio e avverte un senso di insicurezza nelle proprie capacità seduttive, mentre l’uomo interpreta i cambiamenti fisiologici come un fallimento.

Si insinua così lo stereotipo di una sessualità che si indebolisce e questo può generare la credenza che essa sia superflua, pericolosa o non meritevole di essere esplorata. A volte, al contrario, le esigenze affettive e sessuali restano molto attive col progredire dell’età, ma emerge  la paura del rischio che gli altri possano non capirle, con conseguente vergogna dei propri legittimi desideri.

Sono quindi vari i fattori che impediscono di vivere con serenità quella che è semplicemente una fase diversa, da scoprire e da vivere con gioia: fra questi la non corretta informazione sulle modificazioni fisiologiche che subisce il corpo, le implicazioni psicologiche che ne derivano, la mancanza di condivisione e confronto con il partner, i familiari e le persone che ci circondano. È importante ricordarsi che con il passare degli anni la sessualità si fa diversa, ma non peggiore. Si tratta di una sessualità sfumata, raffinata, non solo focalizzata sugli organi genitali e sul coito, che richiede comportamenti, azioni e modi di porsi di fronte al piacere altri dalle età precedenti. Una sessualità che è comunicazione di accettazione di un altro corpo, nel quale si rispecchiano i cambiamenti del proprio.

Dott. ssa Simona Sola

Psicoterapeuta – Sessuologa Clinica


INTERNET e ADOLESCENZA: UN PENSIERO CRITICO

L’ultima metà del secolo appena trascorso è stata caratterizzata dal continuo susseguirsi d’innovazione tecnologica. Seguendo un ritmo costante, le nuove tecnologie sono entrate man mano a far parte della nostra vita quotidiana introducendo modificazioni radicali dell’ambiente in cui ci muoviamo e significativi cambiamenti del modo in cui interagiamo con gli altri. L’avvento di nuovi e sempre più potenti computer, smartphone, laptop e tablet ma sopratutto la diffusione dei nuovi media, attraverso la rete internet e il facile accesso che la caratterizza, ha comportato un cambiamento profondo nella comunicazione e nelle abitudini dell’uomo del terzo millennio. L’accesso ad internet è stato riconosciuto da costituzioni, leggi nazionali e risoluzioni del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa come diritto fondamentale, in quanto si riconosce nella rete un portatore di conoscenza universale e quindi la si può considerare un bene comune globale. La rete è oggi una comunità globale costituita da miliardi d’individui che si connettono per lavorare, istruirsi ma sopratutto per trovare momenti di svago ed evadere dalla realtà di tutti i giorni. Uno dei principiali fautori del World Wide Web così come lo conosciamo oggi, Tim Berners Lee, sostiene che “..il Web è ben lungi dall’essere fatto, è solo in una fase ferraginosa di costruzione..”. Potremmo definire la rete delle reti come un enorme cantiere in corso di realizzazione che sfida l’umana immaginazione e le capacità di chi ogni giorno si addentra nell’immensità del cyberspazio. La ricerca sulla dipendenza da internet ha alle proprie spalle relativamente pochissimi anni di sviluppo e tutt’ora non esiste una visione univoca del problema benché i ricercatori si siano ingegnati nella costruzione di appositi reattivi e test basati sui metodi d’indagine proposti dai manuali diagnostici. Per meglio comprendere i comportamenti legati all’abuso d’internet, bisogna tornare indietro nel tempo fino al 1994, l’anno in cui la dottoressa Kimberly Young ricevette una telefonata da un’amica che le chiedeva un aiuto psicologico per suo marito, poiché questo passava tutto il suo tempo libero online, spingendola a pensare seriamente al divorzio. Fu questa telefonata ad avviare la dottoressa Young verso una serie di ricerche riguardo l’uso patologico della rete e la conseguente redazione di un questionario Young Diagnostic Questionnaire composto da otto domande, per individuare una eventuale dipendenza da internet. Si può quindi individuare in questa serie di eventi l’inizio del dibattito in merito all’uso patologico dei nuovi media. Internet ha finora accelerato in modo esponenziale il progresso tecnologico, reso “il tempo reale” l’unica dimensione temporale valida e compresso migliaia di chilometri alla distanza tra lo schermo di uno smartphone ed il volto dell’utente, rappresentando una vera e propria rivoluzione culturale e mediatica che ha neutralizzato spazi e distanze e mitigato i confini tra produttori di contenuti e semplici consumatori. Tuttavia è anche luogo di un vero e proprio paradosso mediatico, palesando una sorta di anomalia che capovolge il suo significato più intimo: gli intenti unificanti della rete, alla fine si sono fatti portatori di profonde e potenzialmente incolmabili divisioni. Mark Prensky coniò l’espressione nativo digitale nel suo articolo “Digital Natives, Digital Immigrants” pubblicato nel 2001 e diffusa in Italia dal saggio “Nativi digitali “ del 2011 di Paolo Ferri. Il termine è stato più volte rivisto dallo stesso autore ed è stato oggetto di diverse critiche soprattutto perché nessuna delle proposte di Prensky è stata supportata da dati scientifici. Nella sua prima stesura il termine identifica una persona che è cresciuta con le tecnologie digitali come i computer, Internet, telefoni cellulari e MP3 facendo riferimento alle persone nate negli USA dopo il 1985 come nuovo gruppo di studenti che accede al sistema dell’educazione. Per contro, chi non è nativo digitale ma utilizza le tecnologie si  definisce immigrato digitale. Quindi l’espressione sottolinea la costituzione di una robusta barriera generazionale tra nativi digitali e immigrati digitali: i primi alfabetizzati ai codici digitali, si chiudono in una sorta di “solipsismo internettiano”, comunicano a una diversa velocità e con altri linguaggi rispetto ai secondi, figli dell’epoca analogica, i quali sono costettti a calarsi in un nuovo ruolo, ma soprattutto in uno nuovo ambiente complesso e sostanzialmente sconosciuto, a causa di un diverso imprinting mediatico. Forse la divisione più importante nell’economia dell’analisi del fenomeno, è quella tra genitori e figli, in cui i primi sono sprovvisti dei basilari strumenti di controllo e tutela, mentre i secondi, abili e digitalmente autoctoni, sono esposti a tutte le potenziali insidie provenienti dal web e soprattutto, qualora si presentino, non comunicano a nessuno le criticità e le problematiche, più o meno gravi, che ne derivano. Appare comunque ingeneroso e intellettualmente scorretto, pur tenendo in considerazione tutti questi elementi, demonizzare il mezzo o la piattaforma che, in quanto declinazione digitale di un ambito sociale in cui coesistono il bene e il male, diffonde il dialogo tra questi ultimi che si palesa nella nostra quotidianità. Altrettanto sbagliato sarebbe glorificare la spinta democratizzante insita nella rete che legittima tutti a essere i poli di una comunicazione sempre in movimento. L’uso di internet si rivela avvincente quando ciò viene a scapito della genuina socievolezza della vita reale. Mi riferisco qui al fenomeno degli hikikomori, cioè l’estremo ritiro di giovani adulti ed adolescenti, nella propria stanza. Le caratteristiche intrinseche agli adolescenti ne fanno la fascia di popolazione maggiormente esposta alle insidie della rete.

L’adolescenza è una fase della vita ricca di cambiamenti a livello psico-fisico. I ragazzi cominciano a conoscere più da vicino il mondo degli adulti e sentono che vogliono farne parte. Cercano una maggiore indipendenza dalla famiglia di origine, rivolgendosi verso i coetanei, ritenuti più simili a sé. Nel gruppo di pari il giovane ha la possibilità di fare esperienza delle proprie capacità, di apprenderne di nuove, di ricercare delle sicurezze che sono venute meno a causa di tutti questi cambiamenti. La pubertà segna l’inizio dell’adolescenza. Oltre al cambiamento fisico, ci sono esperienze emozionali molto intense date dalle modificazioni corporee che impongono la ricerca di nuovi equilibri nei rapporti con gli altri e con il sé; anche la precocità del cambiamento rispetto ai coetanei o il suo ritardo può suscitare ansie ed incertezze. Questi cambiamenti fisici fanno si che l’individuo venga trattato dalle persone con cui entra in contatto in modo diverso da come veniva trattato da bambino; le richieste a lui rivolte, e le aspettative non sono più le stesse; ci si aspetta da lui un comportamento adulto ma lo si continua a considerare non del tutto autonomo. In questa fase l’adolescente è consapevole della modificazione delle sue relazioni e di conseguenza egli modifica il proprio atteggiamento verso sé stesso e il mondo circostante. Gli studenti, secondo la maggior parte delle ricerche intraprese finora, sviluppano problemi legati all’uso della rete: spesso sono ragazze e ragazzi solitari con tendenze all’introversione e alla scarsa stima in se stessi. Il progressivo ritiro dal mondo reale, per confinarsi in un mondo virtuale, diviene una sorta di rifugio della mente. Ciò consente alla persona d’evitare nella misura massima possibile le ferite narcisistiche e i sentimenti spiacevoli, come la colpa e la vergogna. Permette di liberarsi dei legami propri di ogni situazione di dipendenza matura, alimentando subdoli sentimenti d’autosufficienza e onnipotenza.

La condizione più grave è quella in cui l’internauta perde progressivamente ogni interesse per l’interazione con altri andando incontro ad una crescente desocializzazione dove non vi è traccia di un fine ultimo. L’internauta si perde nel surfing online rincorrendo una pura ricerca d’eccitamento che vada ad alleviare, almeno momentaneamente, gli effetti depressivi causati dall’eccessivo tempo speso online. Come nelle tossicodipendenze da sostanze, l’importante è stordirsi, scacciare il dolore psichico e l’angoscia del crollo. Stati d’eccitazione e di euforia possono manifestarsi al di fuori di dipendenze chimiche ed è dimostrato l’instaurarsi di una relazione di dipendenza fra un individuo e una particolare attività ripetuta compulsivamente. E’ importante sottolineare il fatto che una dipendenza da internet è fondamentalmente differente da qualsiasi altra dipendenza, chimica o tecnologica che sia, proprio a causa della natura estremamente informativa del mezzo. Sarebbe miope soffermarsi sugli effetti dannosi, lasciando in ombra le enormi opportunità offerte dalle realtà virtuali: la sterminata accessibilità all’informazione e alle possibilità di comunicazione globale e lo sviluppo di nuove possibilità nella crescita della ricerca scientifica sono la premessa di un universo della simulazione che promette di diventare sempre più sofisticato.

Internet è una fonte inesauribile di dati aperta a chiunque sia capace di maneggiarli e spesso capita che gli internet-dipendenti cerchino la soluzione ai loro problemi di dipendenza interrogando proprio quella che è la causa del loro malessere. Su Google , il più cliccato motore di ricerca al mondo la parola IAD (Internet Addiction Disorder) produce più di 7 milioni di risultati e non è raro che gli utenti abbiano trovato, facendo essi stessi una piccola ricerca sul web, informazioni più o meno corrette riguardo questo fenomeno e si siano in qualche modo avvicinati un po’ di più alla soluzione del proprio malessere.

La stessa D.ssa Kimberly Young offre terapie online da svolgere in video conferenza, e sono centinaia i forum sull’argomento. Non sarebbe ragionevole, inoltre enfatizzare i rischi di dipendenza patologica pensando che dedicare alcune ore al giorno in chat, visitare siti internet o partecipare a videogiochi sia necessariamente uno scherzare col fuoco. Il rischio di dipendenza non è superiore a quello che si corre nel lasciarsi assorbire dai programmi televisivi preferiti o nel sorseggiare una birra fresca con gli amici. Internet è sia un’attività piacevole che può sfuggire di mano, come qualsiasi altra attività che svolgiamo nel tempo libero e che sia uno sfogo per dipendenze preesistenti, che non devono essere trascurate prima di considerare la dipendenza dal medium come un fenomeno sé stante. Una internet-dipendenza in genere s’instaura in soggetti per cui una preesistente sofferenza mentale spinge ad approfittare delle suggestioni offerte dal media e dai videogiochi per sottrarsi all’ansia e alla fatica psichica prodotta dalle relazioni sociali. Sono proprio questi i casi che costituiscono la nuova sfida umana e scientifica per chi si appresta a studiare le psicopatologie del terzo millennio.

 E’ la società che cambia la tecnologia e non viceversa.

La storia e’ ricca di testimonianze e casi di resistenza al cambiamento e diffidenza verso le novità: le preoccupazioni che social media e videogiochi possano compromettere infanzia e adolescenza, causino danni neurologici, rovinino la vista, creino un’epidemia di obesità, riducano il sonno e scatenino la depressione permangono nella mente di molti. Il cambiamento determinato dalla tecnologia sta  in effetti trasformando radicalmente l’infanzia e l’adolescenza, cosicché i ragazzi accolgono le novità, mentre gli adulti non riescono a dare un senso a questo cambiamento e si sentono disorientati. Manca la consapevolezza del fatto che ogni generazione abbia giocato in modo diverso. Cosi l’infanzia 2.0 non e’ legittimata dagli adulti, più spesso sedotti dalla nostalgia della propria infanzia. Diventa quindi necessario guidare i ragazzi per arricchire di valori la dimensione digitale. L’Identità è legata al contesto storico: quella dei giovani di oggi è connessa alla rivoluzione digitale e poiché nei più giovani i valori vanno coltivati, gli adulti hanno il compito e il dovere di entrare nel mondo digitale dei ragazzi, esplorarlo, al fine di guidarli e incrementare con sistemi valoriali validi e persistenti questa nuova dimensione offerta dalla rete.   

Dott. Perri Marco

Psicologo Clinico specializzando in psicoterapia psicodrammatica.

Ha partecipato come formatore a diverse iniziative sul territorio per sensibilizzare riguardo la diffusione delle nuove tecnologie e le nuove dipendenze.

 E’ autore del testo: I.A.D. – Internet Addiction Disorder: critiche e perplessità. Review (Edizioni Accademiche Italiane, 2015)

Email: psyperri@gmail.com


Tutto a posto, niente in ordine: genitori, figli e sessualità

Il compito di un genitore è quello di essere ‘il più forte, il più grande e il più saggio’ di fronte ai propri figli. Questo è quello che sostiene la teoria dell’ attaccamento di John Bowlby, medico psicoanalista britannico, importante studioso dei legami affettivi e dello sviluppo della crescita degli individui.

Il suo punto di partenza è stata l’etologia, cioè l’osservazione del mondo animale, in particolare gli studi di Harry Harlow che dimostrano che i piccoli, i cuccioli, preferiscono l’agio del contatto corporeo e della presenza fisica all’approvvigionamento di cibo. Partendo da qui Bowlby (seguito poi da molti altri studiosi) ha dimostrato come anche negli esseri umani la vicinanza di un individuo con maggiore esperienza di vita sia fondamentale per affrontare il mondo in maniera adeguata.

‘Più forte, più grande, più saggio’ non ha nulla a che vedere con la perfezione. I genitori perfetti non esistono, così come non esistono i figli perfetti; ognuno fa sempre il meglio che può fare. Il compito di un genitore è quello di accompagnare e stare a fianco, stare vicino, insomma di ‘esserci’ per i propri figli.

Anche la sessualità è un mondo da esplorare, in cui è necessario un accompagnare attento.

Molto spesso mamme, papà o coppie di genitori mi portano in studio l’imbarazzo del parlare di sessualità con i propri figli: quando cominciare, come fare, cosa dire?

“Mamma papà, come nascono i bambini?” oppure “Mamma, papà, stasera posso uscire con il mio ragazzo?”: due situazioni legate ad età molte diverse tra di loro che fanno però entrambe scattare allarme e preoccupazione nei genitori. Figli preoccupati, genitori preoccupati, risultato:  nessuna informazione sana sulla sessualità.

Il primo scoglio da superare è quello di prendere confidenza  con alcuni termini che causano tanto imbarazzo, come pene, vagina, sesso orale: siamo prima di tutto noi adulti a dovere prendere ‘agio’ con queste e tante altre parole, in modo da essere in una situazione di consapevolezza quando ne parleremo (perché ne dobbiamo parlare… ) con i ragazzi adolescenti, veicolando il messaggio che per noi è un piacere poter parlare dei problemi e dei dubbi che loro hanno. Quindi primo punto: l’importanza non solo del cosa dire ma del come dirlo.

Da quale età?

Eurispes e Telefono Azzurro hanno condotto un’indagine su un campione rappresentativo di 2.470 adolescenti italiani tra i 12 e i 19 anni, che ha rilevato come oltre la metà degli intervistati aveva avuto il primo rapporto sessuale completo prima dei 16 anni. In particolare, il 38,4% ha avuto il primo rapporto sessuale tra i 14 e i 15 anni, mentre l’11,7% ancora prima, tra gli 11 e i 13 anni. Poco meno del 30% lo ha avuto tra i 16 e i 17 anni, mentre appena il 4,9% ha “aspettato” di diventare maggiorenne (8° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza).

Oggi gli adolescenti (e non solo…) hanno a disposizione internet: spesso però qui si trova una sessualità ‘esagerata’, ‘amplificata, immagini spesso molto invasive, che non rispondono al bisogno basilare di informazione dei ragazzi. La base è parlare di prevenzione, contraccezione, uso corretto del preservativo,  emergenze sessuali, vari miti e leggende sul sesso – e di un punto spesso trascurato: che il sesso va sempre sotto braccio con l’affettività.

In questo senso, è ancora più necessario che i giovani abbiano una guida, affinchè non si crei in loro un’idea della sessualità lontana dalla realtà. 

Già verso i 4 anni i bambini scoprono le differenze anatomiche tra maschi e femmine, si informano su dove erano prima di nascere e come sono venuti al mondo. Adegueremo allora in questo caso i termini  al loro linguaggio. A questa età  è importante che imparino a rispettare  le differenze, che abbiano un’immagine positiva del proprio corpo e che ne apprezzino le funzioni. Dai 7-8 anni poi è opportuno iniziare ad utilizzare i nomi corretti della varie parti del corpo.

In casa, le occasioni per affrontare l’argomento non mancano. La vita quotidiana è pervasa da messaggi sessuali, a partire dalle pubblicità. Basta fermarsi – difficile a volte, eppure necessario – e cogliere l’occasione per affrontare l’argomento.

Una buona educazione sessuale è un processo informativo ampio: non si tratta solo di rispondere a curiosità anatomiche, ma di affrontare anche questioni affettive. Una sana educazione sessuale non consiste soltanto nell’apprendere una serie di informazioni tecniche, ma anche nel riflettere sul piacere e sui sentimenti propri e altrui, sulle conseguenze cui può dare origine l’atto sessuale, sulla relazione con il partner, su ciò che si trova sui social, adescatori compresi. Parlare di sesso non significa parlare solo del rapporto sessuale e, in particolare, del rapporto sessuale penetrativo: la sessualità è un argomento molto vasto che riguarda il rapporto con il corpo, le fasi di crescita, cosa significa o non significa essere maschi o femmine, cosa è l’amore, l’attrazione fisica, la relazione con un’altra persona, quali sono i pericoli per la propria salute o incolumità, e così via.

È necessario rispondere alle domande in modo franco e semplice, ma non semplicistico: un minimo di preparazione è sempre richiesto, per cui è sempre meglio documentarsi prima di parlare: non è assolutamente vero che gli adulti abbiano sempre risposte corrette sugli argomenti che riguardano la sessualità, ma è assolutamente vero che in questo caso internet può essere per noi adulti di grande aiuto. E se  non si sa come rispondere a una domanda, è lecito dire semplicemente che non si sa rispondere(“In questo momento non so cosa risponderti, cercherò di informarmi e poi te lo dirò”; oppure, in molte situazioni anche meglio: “proviamo a informarci insieme”). È importante veicolare il messaggio che per noi è un piacere poter parlare dei problemi e dei dubbi che loro hanno. In un’epoca in cui tutti sanno tutto e in cui bisogna essere sempre performanti e al top in ogni sfera della vita, al lavoro, a scuola, nelle relazioni, nello status sociale, incontrarsi e stare insieme nel terreno del dubbio e del confronto è un dono prezioso, non una debolezza.

Ancora: rispettare la privacy del bambino o dell’adolescente. Anche se può essere molto divertente raccontare ad amici e familiari le confidenze ricevute, è assolutamente necessario astenersi da questa pratica, che denota mancanza di rispetto e che compromette la fiducia reciproca.

E se si è proprio in imbarazzo ci si può sempre rivolgere ad uno psicologo per un paio di sedute sull’argomento. Potrebbe anche essere che parlare di sesso e affettività tocchi in noi adulti nodi non ancora risolti ed elaborati , sui quali non è mai troppo tardi intervenire.  

Noi adulti aiutiamo i figli a crescere ma a volte capita una cosa meravigliosa: che i figli facciano crescere noi e che ci educhino.

In conclusione noi genitori adulti dobbiamo sempre ricordarci ‘la  caratteristica più  importante dell’essere genitori: fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato’ (Bowlby, 1988).

 

Confortante, no?

 Dott.ssa Simona Sola – psicologa, psicoterapeuta, sessuologa clinica.


TRANSIZIONI FEMMINILI: LA MENOPAUSA

Si definisce menopausa il momento di vita di una donna nel quale cessa la comparsa del ciclo mestruale ma in realtà, i cambiamenti fisici e psichici possono fare la loro comparsa già qualche anno prima dell’ultimo ciclo mestruale.

Il climaterio o perimenopausa è un periodo che può essere caratterizzato da variazioni significative del ciclo mestruale in termini di frequenza, quantità, dolorabilità inoltre possono essere presenti tensione mammaria ed esacerbazione di problematiche di emicrania. Dal punto di vita emotivo e psicologico possono essere più frequenti irritabilità, variazioni dell’umore, stanchezza.

Amenorrea è il termine utilizzato per definire l’assenza di ciclo e quindi l’interruzione delle mestruazioni che può essere fisiologica, oppure iatrogena; quest’ultima è quella menopausa provocata da interventi medico chirurgici o farmacologici.

L’età media di insorgenza è compresa fra i 52 e i 54 anni ma fattori quali fumo, scarsa nutrizione, vivere ad elevate altitudini possono ridurre l’età di insorgenza.

I sintomi caratteristici che possono durare da 6 mesi ad un periodo maggiore di 10 anni e che variano da inesistenti a gravi sono:

  • Vampate di calore, le cosiddette caldane con frequente sudorazione notturna, sono dovute all’instabilità vasomotoria, interessano il 75-85% delle donne e iniziano in genere prima della fine delle mestruazioni. Le vampate di calore continuano per circa 1 anno o più nella maggior parte delle donne, più di 4 anni nel 50% e oltre i 12 anni nel 10%.

Le donne avvertono una sensazione di tepore o di vero calore e possono sudare, a volte abbondantemente, la temperatura basale aumenta. La cute, specialmente quella del volto, testa e collo, può diventare arrossata e calda. La vampata, che può durare da 30 secondi a 5 minuti, può essere seguita da brividi.

Non si conoscono a tutt’oggi le cause delle vampate di calore, ma si ritiene che siano il risultato di cambiamenti nel centro termoregolatore situato nell’ipotalamo.

 

 

  • Apparato genitale e urinario

A livello vaginale possono comparire sintomi quali: secchezza, dispareunia (dolore alla penetrazione) e, occasionalmente, irritazione e prurito.  La diminuita produzione di estrogeni determina un lieve assottigliarsi delle mucose vulvare e vaginale che appaiono più asciutte, friabili e meno elastiche.

I sintomi vaginali così come i sintomi legati all’uretra e alla vescica, tra cui urgenza urinaria, disuria (difficoltà ad urinare), infezioni delle vie urinarie frequenti, fanno parte della cosiddetta sindrome genito-urinaria della menopausa.

  • Aspetti psicologici

La menopausa è spesso accompagnata da alterazioni del pensiero e dell’umore, da scarsa concentrazione, a volte perdita di memoria e ansia, sintomi depressivi, insonnia, sensazione di grande affaticamento.

 Tutti i sintomi elencati sono transitori, non sono presenti in tutte le donne ed esistono notevoli differenze nelle diverse culture.

Secondo lo stereotipo classico la menopausa è un momento di lutto dovuto alla perdita della fertilità, in realtà dati empirici hanno mostrato che diverse donne hanno un’attitudine positiva verso la menopausa considerandola un passaggio fisiologico ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi. Studi epidemiologici hanno mostrato che i fattori di stress psicosociale sono associati ad un aumentato rischio per lo sviluppo di sintomi depressivi subclinici, l’impatto di tali fattori è maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé.

Ci sono tante modalità di affrontare il cambiamento, la menopausa può essere vissuta come libertà, infatti la fine del ciclo mestruale per alcune donne rappresenta una vera liberazione soprattutto quando è stato particolarmente doloroso, abbondante spesso associato ad emicrania (in particolare per chi è affetta da endometriosi). La libertà dal timore di una gravidanza indesiderata può avere come conseguenza la scoperta di una sessualità più matura e comunicativa con il proprio compagno senza l’obbligo di una contraccezione sicura a volte ingombrante o impegnativa.

Al contrario la menopausa può essere identificata come un LIMITE oltre il quale la propria femminilità viene inevitabilmente scalfita, il confine che delimita la fine della giovinezza e l’inizio del decadimento fisico, l’accentuarsi delle rughe, l’avvicinarsi della vecchiaia. Il corpo inizia a far percepire maggiormente i propri limiti accompagnato da sintomi nuovi e difficili da gestire. L’instabilità dell’umore aumenta la percezione che tutto sta cambiando e non sarà mai più come prima.

In alcune donne i sintomi ansiosi sono supportati da paure riguardo il futuro soprattutto se esistono in famiglia riferimenti negativi, o ancor più genitori anziani bisognosi di cure. Tali situazioni di stress possono accentuare la sintomatologia di vampate, tachicardia, insonnia.

Gli studi effettuati in donne di altre culture hanno dimostrato come il riconoscimento sociale e famigliare siano fondamentali nel consentire una serena accettazione di questo momento di passaggio. Nelle culture occidentali le donne che sono dedite ad attività sportive moderate, che hanno cura dell’alimentazione e dedicano tempo a se stesse percepiscono in misura minore i fatidici sintomi menopausali.

La menopausa è assolutamente un fenomeno fisiologico, fa parte del ciclo di vita della donna, diventa necessario rivolgersi ad un esperto ginecologo nei casi in cui

il ciclo assuma caratteristiche emorragiche tanto da impoverire il contenuto ematico di globuli rossi, emoglobina e ferro; oppure quando il ciclo, scomparso da oltre 1 anno faccia nuovamente la sua comparsa. In questo caso è necessario un controllo ecografico per evidenziare la comparsa di polipi o altre formazioni che possono dar luogo a sanguinamenti. Le donne che sono obese, ipertese e/o diabetiche hanno la necessità di effettuare più controlli, mentre tutte le donne devono comunque accedere ai controlli di screening mammografico e  citologico (pap-test HPV).

Quando i sintomi di insicurezza, ansia, irritabilità e/o insonnia sono preponderanti lo psicoterapeuta è l’esperto più indicato per affrontare tale disagio.

Dott.ssa Silvana Perino psicoterapeuta, sessuologa, ostetrica.


DIFFICOLTÀ SCOLASTICHE: e se ci fosse un problema di ascolto?

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Una difficoltà scolastica può derivare da un problema di linguaggio parlato, ma anche di linguaggio scritto. Questo si verifica quando la non facile analisi dei suoni della lingua parlata non permette una gestione ottimale dei movimenti di scrittura. In questo l’ascolto gioca un ruolo importante. I problemi di ascolto infatti, non sono legati ai problemi dell’udito, ma alla capacità di attenzione e di selettività verso i suoni. Questo significa che il bambino può sentire benissimo, ma avere difficoltà di Ascolto.

Nell’ambito della lettura ad alta voce ad esempio l’ascolto agisce su più livelli: se il suono che giunge alle orecchie del nostro bambino è chiaro la lettura sarà sicura. Nella lettura è importante che il bambino o il ragazzo abbiano ben definito nella mente quale suono è collegato ad ogni segno grafico che legge e il suono sarà chiaro solo se l’ascolto della propria voce risulta adeguato. In caso contrario imparare a leggere sarà una procedura esitante, a tentativi e piena di dubbi.

Il percorso inverso avviene nella scrittura dove anche la parte vestibolare dell’orecchio interno è coinvolta nella gestione della mano e del braccio. La coclea che ha il compito di analizzare ogni singolo suono è in stretta relazione con il vestibolo che aiuta il bambino a programmare i migliori movimenti della mano mentre scrive.

A volte invece il vestibolo può trovarsi sovraeccitato dalle frequenze gravi e indurre a distrazioni facili o alla tendenza continua al movimento.

Ecco alcuni indizi che ci possono aiutare a riconoscere possibili problemi di ascolto:

  • Perde le parole dell’insegnante: le frequenze acustiche del linguaggio parlato devono essere percepite dal bambino con maggiore forza rispetto alle frequenze gravi che veicolano i rumori di fondo, altrimenti saranno questi ultimi a prevalere sull’attenzione del bambino.
  • Ha bisogno di più tempo per rispondere: all’orecchio destro spetta il compito di gestire il controllo linguistico perché collegato più direttamente all’emisfero sinistro a cui va il compito di dare un significato ai suoni linguistici. Quando questo controllo viene imposto dall’orecchio sinistro il bambino può necessitare di maggior tempo nel riuscire a rispondere.
  • Ha difficoltà a stare attento o a memorizzare: la presenza di una membrana acustica meno tesa può portare a diminuire la capacità di selettivare bene i suoni. Questo è spesso conseguenza di una difficoltà a memorizzare le informazioni.
  • A volte risponde impulsivamente: Tomatis ha identificato nei suoni gravi suoni che stancano. Una percezione che favorisce la dominanza di ascolto di tali suoni può portare a volte a percepire la voce dell’insegnante più aggressiva di quanto lo sia in realtà influenzando in maniera negativa il comportamento del bambino.

Il Metodo Tomatis in questo è un valido strumento e può aiutare il bambino o il ragazzo a educare la capacità di ascolto favorendo una migliore attenzione, concentrazione e memoria. Presso il Centro Arteascolto è possibile effettuare il Test d’ascolto per valutare possibili difficoltà ed è inoltre possibile usufruire di percorsi volti al sostegno della genitorialità. Per ulteriori informazioni – Centro Arteascolto – via della Aie 11/b – None – sito: www.arteascolto.it

 

 


Laboratorio Salute: Terapia del dolore e Metodo Tomatis

In questa puntata la conduttrice, giornalista Micol Baronio insieme all’ospite Dottor Concetto Campo, psicologo e specialista in audiopsicofonologia della metodica ideata dal dottor francese Alfred Tomatis, presentiamo il Metodo Tomatis. Il Dotto Campo ha promosso la conoscenza e la diffusione del Metodo Tomatis in Italia, dove svolge l’attività professionale e una intensa attività seminariale. Ha collaborato con l’Università di Ferrara per la formazione di operatori educativi specializzati. E’ docente di Musicoterapia presso il Conservatorio di Musica di Verona. E’ spesso invitato in Italia e all’estero a tenere conferenze e lezioni sul metodo Tomatis presso università, scuole, associazioni, enti pubblici e privati.

Con Lui abbiamo affrontato diverse tematiche legate all’ascolto e all’apprendimento. E’ possibile che si senta ma non si ascolti. Si sentirà correttamente il messaggio sonoro ma potrà essere scarsamente analizzato in situazioni emotivamente impegnative. Il cervello si protegge erigendo barriere che possono sostenere lo sviluppo di disturbi vari. In tal caso di dice che “l’ascolto è disturbato”. Il Metodo TOMATIS stimola il cervello. E’ possibile ripetere le sessioni di ascolto utilizzando un dispositivo progettato ad hoc che stimola il cervello e progressivamente permette di analizzare in maniera efficace il messaggio sensoriale. Si dice che “l’Orecchio impara ad ascoltare”. Un ascolto ben sintonizzato può cambiare la vita. L’orecchio non viene utilizzato solo per sentire. Stimola il cervello ed è il centro dell’equilibrio. Un ascolto ben-sintonizzato, quindi, rappresenta una componente essenziale per promuovere lo sviluppo personale.

Il Metodo Tomatis è una tecnica di stimolazione sensoriale sonora. Il suono viene trasmesso, da un lato, attraverso la conduzione ossea provocata dalla vibrazione nella parte superiore del cranio e dall’altro dalla conduzione aerea che attraverso l’auricola. I suoni che sono utilizzati in tali dispositivi sono già stati preliminarmente trattati con l’effetto Tomatis in laboratori e quindi stimolano l’intero orecchio interno, comprese le parti che influenzano le funzioni uditive e motorie. Il suono si propaga prima di tutto verso il timpano e poi attraverso la conduzione ossea, attivando un riflesso che permette la contrazione e rilassamento di due muscoli, la staffa e il martello. Tale effetto è ottenuto attraverso un contrasto sonoro percettivo (un’alternanza doppia di timbro e intensità) teso a “sorprendere l’orecchio”.

Insieme al secondo ospite in studio il dottor Alberto Ugo Caddeo, esperto in medicine naturali del centro di Ricerche in Biotecnologie e Medicine Naturali dell’Università Statale di Milano. Laureato in Medicina e Chirurgia, è specializzato in Anestesiologia e Rianimazione e Medicina Estetica. Medico omeopata, diplomato in Agopuntura Tradizionale Cinese, psicoterapeuta in Sessuologia e presidente dell’Accademia Europea di Scienze Olistiche (A.E.S.O.). Da molti anni si occupa della ricerca sulla Medicina di Paracelso e sulla Spagiria. Collabora con Istituti Universitari nel rapporto tra Medicina Allopatica e Medicine Naturali. Attualmente insegna Storia della medicina e filosofia olistica e Psicosomatica alla scuola di Naturopatia SIMO a Milano ed è Presidente della Commissione Scientifica e Didattica S.I.N.C.R.O. (Società Italiana Naturopati Counselors e Ricerca Olistica).

Abbiamo parlato delle terapie e apparecchiature elettromedicali di ultima generazione. La medicina naturale, non invasiva, si sposa perfettamente con gli avanzamenti tecnologici, e la fisica quantistica è un grande aiuto per l’analisi e per la cura dei disturbi.

In particolare ci ha presentato la terapia Enerpulse, considerata uno dei metodi più innovativi, rapidi ed efficaci sviluppati nella terapia del dolore ed in tutte le patologie muscolo-scheletriche-nervose, in quanto richiede poche sedute terapeutiche di breve durata: 9-18 minuti, dimezzando così i tempi di recupero. L’alta intensità dell’impulso Enerpulse permette di raggiungere tutti i tessuti dell’organismo grazie alla sua profondità che arriva efficacemente fino a 15 cm. Grazie alla loro profondità gli impulsi permettono di raggiungere qualsiasi parte del corpo e portare benefici a tutte le cellule con potenziale di membrana basso, in particolare cellule di tipo osseo, muscolare, tendineo, cartilagineo e nervoso, sfiammando i tessuti, accelerandone la ripresa e riportandole in fisiologia.

Questa terapia è utile per queste patologie:

  • Patologia della colonna, lombalgia, lombosciatalgia, mal di schiena
  • Traumi sportivi e da impatto
  • Cervicalgia, artrosi cervicale
  • Riduzione dei tempi di recupero delle fratture
  • Patologie della spalla, del gomito dell’anca – Traumi articolari
  • Riduzione dei tempi di recupero nel post-operatorio
  • Pubalgia
  • Epicondilite – gomito del tennista
  • Artrosi, artrite reumatoide e degenerativa
  • Tendiniti, distorsioni, lesioni dei legamenti
  • Ernie, danneggiamento dischi intervertebrali
  • Fribromialgia
  • Infiammazioni tendinee e dolore al calcagno
  • Lupus

Ci ha presentato il Sistema Vitalfeld che integra il metodo della regolazione delle oscillazioni del campo elettromagnetico del paziente (Campo Vitale) con i principi della medicina tradizionale, della naturopatia e della medicina olistica per rispondere in modo mirato alle esigenze di equilibrio energetico dei singoli individui, scegliendo di volta in volta il programma più consono. Tratto caratteristico di questo sistema è la ritrasmissione al paziente solo di una piccola parte delle frequenze comprese nell’ampio spettro delle sue oscillazioni, consentendo così all’organismo di reagire meglio e più intensamente ai segnali terapeutici. La terapia del Campo Vitale si rivela particolarmente utile in caso di carenze immunitarie, allergie alimentari, allergie inalative, intossicazioni da veleni ambientali, per stimolare la cicatrizzazione di ferite post-operatorie, asma bronchiale, bronchite asmatica, eczemi cronici e poliartrite, per la cura dei reumatismi e dei dolori di diversa natura come nevralgie, emicranie, cefalee di origine allergica e sindrome mestruale.

Infine ha parlato della tecnologia QUEC PHISIS, ovvero la Ionorisonanza Ciclotronica Molecolare considerata come la terapia più all’avanguardia nell’applicazione delle ricerche sulla Coerenza Elettrodinamica Quantistica. Genera onde elettromagnetiche in grado di stimolare l’attivazione delle funzioni enzimatiche compromesse, ripristinando l’efficienza di tutto il sistema corporeo.

 27 aprile 2017 – Salute.

Articolo tratto dal sito: TC Telecolor Greenteam – CH18 http://www.telecolor.net/2017/04/terapia-del-dolore-medicina-santa-ildegarda

Video registrazione puntata visibile sul youtubeLaboratorio Salute: Terapia del dolore e Metodo Tomatis


Il Metodo Tomatis: Un aiuto per stress e ansia

I ritmi intensi a cui abitualmente siamo sottoposti possono essere fonte di stress e di ansia.
Iniziamo a fare chiarezza tra ciò che noi chiamiamo comunemente stress e ciò che appartiene ad uno stato ansioso. Possiamo affermare che lo stress è in relazione a difficoltà incontrate nella nostra vita quotidiana e che fonda le sue radici nelle situazioni di vita che normalmente affrontiamo tutti i giorni.
L’ansia invece ha origini più lontane, più remote e sovente è in relazione ad eventi che non necessariamente rientrano nella nostra consapevolezza.
Entrambe gli stati però alterano più o meno in modo intenso l’equilibrio neurovegetativo della persona.
Che cosa intendiamo per “alterazione neurovegetativa”?
Si parla di alterazione neurovegetativa quando sono presenti uno o più sintomi di distonia di tipo funzionale a carico del sistema nervoso, che portano ad uno squilibrio nella nostra persona.
La causa è fondamentalmente un’alterazione dell’equilibrio fra il sistema nervoso simpatico e il sistema nervoso parasimpatico del nostro organismo.
Il sistema autonomo neurovegetativo dell’uomo infatti è tenuto in equilibrio da queste due parti contrapposte: ciascuno di questi sistemi agisce sul nostro organismo in modo differente.
Normalmente, questi sistemi, lavorano in sinergia ed equilibrio. Uno sfasamento di questa sinergia e il prevalere di un sistema sull’altro causa disequilibri più o meno importanti.
Possono quindi comparire sintomi fisici come tachicardie, ipertensione o bradicardia, secchezza del cavo orale, sindromi gastroenteriche, disturbi digestivi, mal di testa ed emicrania, disturbi del sonno, dolori di schiena, etc…..
Lo sfasamento di questa sinergia può essere ricondotto allo stato di “tensione” eccessiva a cui il nostro corpo è sottoposto abitualmente e ad una attivazione eccessiva di un sistema rispetto all’altro.
Sollecitazioni continue e prolungate possono dare origine a sintomatologie anche emotive e psicologiche che si manifestano spesso come stanchezza, irritabilità, intolleranza, reazioni difficilmente controllabili.
Dove vi sia stata un’indagine medica che escluda la presenza di disfunzioni organiche o di altre patologie in atto, che possano spiegare la presenza di tali sintomatologie, il metodo Tomatis può risultare un valido strumento.
Grazie agli studi affrontati dal medico Alfred Tomatis oggi sappiamo che la funzione di ascolto (che si differenzia dal semplice sentire) messa a punto dal nostro orecchio ci fornisce circa l’80% della stimolazione sensoriale di cui il cervello necessita per funzionare a dovere. Grazie all’orecchio integriamo il nostro corpo, i nostri movimenti, la nostra postura.
L’ascolto quindi pone le basi di una comunicazione dinamica tra il mondo esterno e il nostro mondo interiore.
Il metodo Tomatis utilizza le funzioni dell’orecchio per rieducare l’ascolto, stimolando il sistema nervoso ad un nuovo equilibrio. Agisce sulla plasticità dei circuiti neurali che partecipano alla decodifica e analisi dei suoni e sui circuiti coinvolti nella motricità, equilibrio e coordinamento.
Utilizza un dispositivo chiamato “orecchio elettronico” che produce contrasti sonori tramite cambi improvvisi ma programmati di timbro e intensità sonore. Tale effetto ha il compito di stimolare il cervello, attivandone i meccanismi di attenzione e d’ascolto. Il suono viene trasmesso tramite cuffia per via AEREA, attraverso il canale uditivo, e mediante vibrazione per via OSSEA.
Le stimolazioni hanno durata di circa 2 ore ciascuna, e in media si dividono in tre distinti cicli.
Il primo ciclo solitamente presenta un percorso di 15 giorni, mentre il secondo e terzo ciclo mediamente hanno una durata di circa 10 giorni.
In un’ottica di prevenzione e benessere della persona un percorso Tomatis può aiutare quindi a riequilibrare l’organismo sottoposto ad un lavoro eccessivo.


Intervista al Dr. Porges:

La Teoria Polivagale e i fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione

La Teoria Polivagale non è una teoria sulla salute mentale, ma è un modello che può essere applicato alla salute in generale, all’oncologia alle malattia autoimmuni, alla fibromialgia e naturalmente a disturbi psicologici. Si tratta in sintesi di una teoria su legame mente-corpo, che si propone di spiegare i meccanismi neurofisiologici sottostanti questa interazione.

A seguito del convegno tenutosi a Milano lo scorso ottobre, il Dr. Porges ha accettato di rilasciarci un’intervista per approfondire alcuni temi chiave affrontati nel suo libro di recente uscita in italiano “La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione”. Con un ringraziamento particolare al suo immenso lavoro scientifico, alla grande disponibilità al confronto e al suo profondo rispetto per la conoscenza, a tutti i livelli. Buona lettura!

Buongiorno Dr. Porges, la prima cosa che vorrei chiederle è come è nata l’idea della traduzione italiana del suo volume “La Teoria Polivagale”, già presente in inglese e tedesco da qualche anno?

La traduzione italiana è stata curata da Vittoria Ardino, attuale presidente della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST), che è di Milano ma vive e lavora a Londra presso la London Metropolitan University. Il nostro primo incontro è avvenuto a Bologna, dove mi ha invitato lo scorso Giugno per presentare il libro, ma la nostra collaborazione è iniziata circa un anno prima, periodo in cui ha portato avanti il lavoro di traduzione. La Dott.ssa Ardino inoltre ha fondato una rivista italiana specializzata sul trauma – l’International Journal of Multidisciplinary Trauma Studies – e il mio contatto con lei è nato dall’avvio di questo progetto e dal suo interesse per i temi di cui mi occupo.

Nella prima parte del suo libro racconta la nascita della Teoria Polivagale attraverso i 40 anni di studi e ricerche, grazie ai quali oggi possiamo avvalerci di informazioni importantissime sul funzionamento del nostro sistema nervoso autonomo. Una prima domanda è dunque sulla differenza tra la teoria “classica” del sistema nervoso autonomo, basata sull’idea del dualismo antagonista, e la sua Teoria Polivagale. Quali le principali differenze?

Il paradigma classico e più diffuso vede il sistema nervoso come un’alternanza tra due sistemi principali tra loro in competizione, il sistema simpatico e il sistema parasimpatico. In questo approccio il sistema simpatico è responsabile della nostra reattività (attacco/fuga) e dunque della nostra sopravvivenza, mentre il parasimpatico (vagale) ha un ruolo protettivo di riduzione dell’arousal e recupero dell’omeostasi. Questo è come è stato pensato e studiato negli anni, determinando una maggiore attenzione ed enfasi sul ruolo del simpatico nell’attivare le nostre risposte allo stress e una minor attenzione nel comprendere le funzioni specifiche del sistema parasimpatico. Anche se il dualismo antagonista della visione “simpato-centrica” spiega bene il funzionamento di alcuni organi specifici a livello locale, non costituisce un modello esaustivo per spiegare come noi esseri umani reagiamo alle sfide del mondo.

Il problema vero è: l’iper-reattività è davvero l’unico modo di cui disponiamo per difenderci? Nello studio di come il nostro sistema nervoso reagisce è importante considerare prima di tutto che il modo in cui rispondiamo alle sfide ambientali ci viene dalla nostra evoluzione come specie e questa cornice è la prima differenza tra “dualismo antagonista” e Teoria Polivagale. La cornice filogenetica permette di considerare le risposte del sistema nervoso come un’organizzazione per livelli gerarchici seguendo il concetto di dissoluzione che Jackson (1958) ha utilizzato per le malattie del sistema nervoso derivanti da danno cerebrale. Secondo questo principio i circuiti più evoluti del sistema nervoso inibiscono quelli più primitivi e solo quando i circuiti più nuovi falliscono, allora intervengono i più antichi.

Messaggio pubblicitario Il sistema nervoso autonomo dell’uomo lavora nello stesso modo: utilizza dapprima le risposte adattive che vengono dai gradini più recenti della nostra evoluzione, ma quando queste non servono più a metterci al sicuro, utilizza via via le risposte più primitive, seguendo a ritroso la storia evolutiva della nostra specie. Perciò quello che diventa davvero importante nella Teoria Polivagale è la nozione stessa di “nuovo circuito” in senso filogenetico, perché riguarda proprio il modello di funzionamento e la struttura stessa del sistema vagale.

Esistono due principali branche del sistema parasimpatico appartenenti a periodi diversi della nostra storia filogenetica: un circuito vagale più nuovo e mielinizzato (ventrovagale) che ha fibre afferenti agli organi sopra-diaframmatici e che guida i muscoli del volto, della faringe, dei polmoni, del cuore e determina la nostra capacità di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia e il respiro; poi c’è un circuito vagale più antico (dorsovagale) che ha fibre afferenti agli organi sotto-diaframmatici e che ha un ruolo importante del mantenere l’omeostasi e il controllo delle funzioni viscerali di base (stomaco, intestino tenue, colon e vescica).

In condizioni di pericolo il circuito ventrovagale ha un effetto calmante sul cuore, riduce la reattività simpatica e promuove comportamenti di ingaggio sociale, mentre al contrario questo secondo circuito più antico in condizioni di pericolo ha un’unica risposta difensiva da mettere in campo: il collasso (shut down), risposta che abbiamo ereditato dai rettili ma che può essere potenzialmente letale oggi nell’uomo. Dunque la Teoria Polivagale pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché uno unico, sull’importanza della relazione gerarchica tra loro e sull’importanza di considerare tutte le risposte difensive come adattive di fronte alle sfide ambientali: esiste dunque una reazione simpato-adrenergica, responsabile delle nostre risposte di mobilizzazione (attacco/fuga), ma c’è anche una rezione dorsovagale che quando è attiva in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi, consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria.

Quello che la Teoria Polivagale vuole sottolineare in sintesi è che quando il nostro sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, come può accadere in situazioni traumatiche o di stress prolungato, queste stesse possono diventare potenzialmente dannose per la nostra salute fisica e mentale poiché viene a mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso autonomo.

Può spiegarci il “paradosso del vago” come stimolo intellettuale allo sviluppo della sua teoria?

Il paradosso del vago è stato un grande spunto per me per provare a risolvere la questione di come il vago potesse avere la meravigliosa funzione di favorire comportamenti “vitali” di affiliazione, socialità e protezione per l’uomo e contemporaneamente quella di determinare lo svenimento o in certi casi addirittura la morte. Dalla lettera di un neonatologo ricevuta nel 1992, in cui mi poneva questa domanda venutagli dall’osservazione dei neonati prematuri in cui si è trovato di fronte a questo paradosso, ho iniziato quindi a studiare l’impatto dell’attività vagale sul cuore, cercando di approfondire quando questa potesse proteggerlo e quando divenire potenzialmente letale: era giusto pensare che “una certa quantità di attività vagale fosse buona per l’uomo, ma che troppa diventasse letale”, o c’erano diversi circuiti coinvolti?

L’unica risposta possibile è stata quella di studiare per moltissimi mesi in biblioteca, cercando di ricostruire i cambiamenti evolutivi avvenuti nel sistema nervoso autonomo nel corso dell’intera catena evolutiva, dai rettili ai noi. Da questo approfondimento è emersa la conferma dell’esistenza di due branche del vago, provenienti da due periodi diversi di evoluzione ma entrambi presenti nei mammiferi.

L’altra considerazione, venuta più tardi, è stata che se è vero che la parte più nuova del nostro sistema nervoso autonomo funziona ad un livello gerarchico superiore, consentendoci di mettere in atto comportamenti positivi e pro sociali in condizioni di sicurezza, è vero anche che esiste un sistema di sopravvivenza più antico che lavora “sotto” in equilibrio con il sistema simpatico. Non è mai stata mia intenzione minimizzare l’importanza del sistema difensivo simpatico rispetto a quello vagale, le risposte simpatiche non sono “il nemico”, ma credo sia importante considerarle in una relazione di omeostasi e di equilibrio con l’attività del vago dorsale più antico per capire a fondo la complessità delle nostre risposte alle sfide ambientali.

Nella lettura del suo libro i primi capitoli sono fondamentali per entrare nella cornice teorica che viene presentata e molto ben dettagliata, ma ho trovato molto interessante la terza parte in cui approfondisce alcuni aspetti clinici. In che modo conoscere e approfondire la prospettiva polivagale può essere utile a noi terapeuti?

Quello che dico di solito a chi compra il mio libro è proprio di iniziare dalla terza parte e poi tornare via via indietro  a cercare i fondamenti teorici delle osservazioni e delle ricerche condotte sui pazienti.Innanzitutto c’è da dire che la prospettiva polivagale non nasce come una teoria focalizzata e pensata su categorie diagnostiche, ma è piuttosto focalizzata sul riconoscere l’espressione comportamentale di caratteristiche fisiologiche, che hanno alcuni punti centrali in comune – tra tantissime differenze – con molti disturbi psicopatologici.

Il primo punto centrale è il concetto di regolazione fisiologica, che come clinici siete abituati a chiamare comportamenti di regolazione o disregolazione emotiva. L’osservazione clinica in psicoterapia permette di notare cambiamenti repentini nell’espressione delle emozioni, ad esempio il passaggio da un’espressione neutra ad una arrabbiata, e di osservare in vivo i comportamenti di autoregolazione che vengono messi in atto per ritornare ad una condizione di equilibrio.

Un aspetto su cui può essere utile focalizzarsi come terapeuti è l’intonazione della voce nel dialogo clinico, poiché sappiamo dalla neurofisiologia che la nostra attenzione come esseri umani è più focalizzata sulla prosodia che sulle parole utilizzate. All’interno di un dialogo riusciamo a cogliere intuitivamente che le frequenze più alte sono associate alla presenza di ansia e paura e che la presenza di toni bassi e volume alto sono associati solitamente a rabbia e aggressività. Anche i pazienti dunque sono portati a giudicare costantemente lo stato emotivo del terapeuta ascoltando innanzitutto l’intonazione della sua voce, come espressione della sua regolazione interna (neurocezione).

Messaggio pubblicitario Potrebbe essere utile sapere che quello che davvero guida l’interazione è questo rapporto diadico tra la propria neurocezione (vedi articolo) e quella dell’altro, in un costante rimando di feedback che regolano l’affettività e promuovono sensazioni di sicurezza e fiducia. Da questo deriva un terzo aspetto importante legato al ruolo possibile del terapeuta come co-regolatore della stato emotivo e mentale del paziente; quando questo scambio avviene in modo positivo e adattivo, la co-regolazione degli stati emotivi favorisce l’emergere di nuove e incredibili capacità prima inesplorate e credo che gran parte del processo terapeutico abbia molto a che fare con questo.

Cosa intende quando parla di “Sindrome polivagale”?

Ho cercato di decostruire la Teoria Polivagale e di individuare 4 differenti cluster che possano definire una progressione di sintomi in relazione alle risposte fisiologiche interne. Il dato da osservare è quando il sistema ventrovagale mielinizzato tende a spegnersi e accendersi durante un’interazione e lasciare spazio a momentanee risposte più o meno intense, per poi tornare ad una condizione di equilibrio. Questo andamento “on/off” del sistema vagale ventrale è molto frequente anche in una popolazione sana.

Un primo cluster patologico si può osservare quindi quando c’è un’attenuazione del sistema di coinvolgimento sociale, e dunque una riduzione dell’attività vagale ventrale, che si manifesta con un’espressione del volto piatta, in particolare nella parte superiore dei muscoli orbicolari, bassa reattività e un’elevata sensibilità ai suoni. Il secondo cluster è caratterizzato invece da elevata reattività e mobilitazione direttamente correlate all’attività del sistema simpatico: qui si osservano una regolazione atipica dello stato emotivo con rapidi shift tra calma e reattività e uno stato di ipervigilanza tipico dei disturbi d’ansia e dei comportamenti impulsivi.

Il terzo cluster è caratterizzato dall’alternanza tra sistema simpatico e dorsovagale e si manifesta con una vulnerabilità al collassamento e alla dissociazione. Si manifesta con episodi di ipotensione, assenze o restringimenti dello stato di coscienza, fibromialgie, problemi intestinali e comportamenti di ridotta mobilizzazione. L’ultimo cluster è quello della dissociazione vera e propria che si manifesta con il collassamento cronico (shut down) determinato dall’attivazione del sistema dorsovagale, come risposta difensiva generalizzata a diverse situazioni di stress o di pericolo percepito. Questo ultimo cluster è molto frequente in persone vittime di abuso o di violenze e si tratta di una risposta estrema di difesa ad una minaccia potenzialmente letale.

Quando il trauma è relazionale, ogni essere umano può essere percepito come fonte di estremo pericolo. Capire cosa nell’ambiente stimola questa reazione è una chiave importante nella relazione con questi pazienti e rende possibile il lavoro terapeutico per evitare a tutti i costi che questa reazione molto dannosa si inneschi, a favore di un maggior coinvolgimento del sistema ventrovagale.

Una delle parti più interessanti nel suo recente convegno tenutosi a Milano, e molto ben descritta anche nel libro, è quella in cui ha raccontato la capacità di alcuni muscoli dell’orecchio nel regolare le risposte fisiologiche ed emotive. Può spendere qualche parola su questo?

L’evoluzione del nostro sistema nervoso ha portato alla formazione di circuiti neurali presenti nell’orecchio medio, deputati a riconoscere in modo preferenziale le frequenze associate alla voce umana e a distinguerle tra frequenze positive e calmanti e frequenze ansiogene e/o minacciose; la percezione delle differenti frequenze è in grado di attivare in modo diretto il sistema nervoso e di produrre comportamenti di risposta correlati alla frequenza percepita. Le frequenze più vantaggiose favoriscono la contrazione dell’orecchio medio che attiva il sistema ventrovagale, favorendo un’esperienza di calma e sicurezza nella relazione con l’altro; al contrario frequenze molto alte che non attivano l’orecchio medio sono identificate come dolore o pericolo imminente, mentre quelle troppo basse sono identificate come “presenza di predatore” e attivano risposte di fuga.

All’inizio della nostra storia evolutiva noi esseri umani eravamo molto piccoli rispetto ai grandi predatori e avevamo bisogno di difenderci riuscendo a intercettarli velocemente nell’ambiente, ma nel corso dell’evoluzione abbiamo imparato che oltre alla fuga poteva esserci d’aiuto la protezione degli altri esseri umani e questo ha portato a raffinare le nostre capacità di vocalizzare a frequenze più alte e di percepirle negli altri. Da qui viene l’importanze della prosodia e della melodia della voce nelle interazioni umane.

A questo si lega tutto il filone di ricerche che sta conducendo sull’autismo. Quali risultati recenti avete ottenuto?

Sì, nell’autismo più che in molte altre patologie psichiatriche l’iperacusia è molto presente e causa spesso di comportamento impulsivi, di difficoltà nel mantenere una comunicazione efficace e di percepire l’ambiente circostante come sicuro. Il nostro lavoro di ricerca ha l’obiettivo di approfondire il legame tra esperienze sensoriali atipiche in soggetti autistici e comportamenti reattivi inadeguati che possono compromettere la normale relazione con l’ambiente, oltre che la capacità di autoregolazione emotiva e le difficoltà nell’apprendimento. Il progetto si chiama Listening Project Protocol (LPP) e si basa sulla somministrazione di alcuni tracciati audio modificati per determinate bande di frequenza, in grado di stimolare in modo ottimale l’orecchio medio e di produrre un miglioramento nella percezione della voce umana e nella comunicazione.

Il protocollo è ancora in fase di definizione e sperimentazione, ma abbiamo ottenuto dei risultati preliminari importanti che sembrano confermare la possibilità di poter ridurre l’ipersensibilità acustica in questi pazienti e migliorare la capacità di esprimere le proprie emozioni e di percepire correttamente quelle degli altri.

Quale impatto scientifico immagina per la pubblicazione del suo volume?

Un aspetto importante della Teoria Polivagale è che questa teoria nasce dall’integrazione di informazioni provenienti da diverse branche scientifiche, si è strutturata così com’è nel tempo e resta una teoria in continua evoluzione, aperta all’integrazione di sempre nuove informazioni e scoperte.

Quello che vorrei sottolineare è che la Teoria Polivagale non è una teoria sulla salute mentale, ma è un modello che può essere applicato alla salute in generale, all’oncologia alle malattia autoimmuni, alla fibromialgia e naturalmente a disturbi psicologici. Si tratta in sintesi di una teoria su legame mente-corpo, che si propone si spiegare i meccanismi neurofisiologici sottostanti questa interazione.

All’inizio del mio lavoro non avevo né l’idea né l’obiettivo che il mio lavoro potesse aiutare a capire problemi psicologici o che potesse servire nel lavoro sul trauma, stavo solo studiando l’impatto delle cure intensive su neonati prematuri in un reparto di neonatologia. Non avevo idea che le reazioni di bradicardia, di collassamento o di “morte in culla” potessero in qualche modo avere un terreno comune con le reazioni dissociative legate a traumi, ma entrare in contatto con questo mondo ha arricchito le mie conoscenze e stimolato interessanti possibilità di confronto.

Alla fine dei miei seminari e lezioni sono stato spesso informato da clinici e terapeuti di quanto avessero imparato dalla presentazione del mio lavoro e di quanto avessero più chiara l’importanza del contatto oculare, non per tutti concessa dalla formazione. Ma quello che soprattutto è emerso dal confronto con loro è stato quanto fossero felici di capire che le loro intuizioni come clinici potevano avere un fondamento scientifico, che erano insomma corrette.

 BIBLIOGRAFIA:

 

Articolo tratto dal sito www.stateofmind.it


Radicarsi, fare grounding:

Le risorse del nostro corpo

Grounding è un termine elettrico che indica un circuito ben collegato al suolo (messa a terra). In un circuito con un buon grounding, ogni dispersione di corrente è portata a terra in modo sicuro, senza creare danno. Allo stesso modo il grounding (…) riguarda la creazione di una connessione fisica ed energetica con il terreno, in modo che l’energia del corpo si orienti verso il basso. Viviamo in relazione al campo gravitazionale terrestre e la gravità ci mantiene collegati alla terra. Il grounding è la sensazione di connettersi al terreno, con il nostro corpo che risponde alla forza di gravità adeguandosi verso il basso, così come l’acqua va verso il fondo di una brocca.

Varie espressioni nel nostro linguaggio si riferiscono al grounding, come: tenere i piedi per terra, stare dritti in piedi, avere la terra sotto i piedi, avere i piedi ben piantati per terra. Si riferiscono a qualità come la fermezza, la determinazione e l’abilità di sostenerci da soli. Parlano della forza, della stabilità, del senso di sicurezza e sostegno interni che vengono dal sentirsi grounding, o radicati. Chi di noi è radicato viene spesso descritto come stabile, affidabile, in contatto con la realtà, equilibrato, sicuro di sè e delle proprie convinzioni.

(…) eventi dolorosi della nostra vita possono farci “perdere la base”, sradicandoci e questo interrompe e danneggia le fondamenta del senso di sicurezza da cui otteniamo sostegno per riuscire a muoverci nel mondo e interagire con gli altri. Potrebbe succedere anche di diventare troppo radicati (iper-radicamento): essere così solidi, appesantiti, fissi e inamovibili al punto che ci manca la flessibilità e la leggerezza per muoverci e vivere con grazia e con agio. Ci sono momenti nella vita in cui tutti noi possiamo ritrovarci sradicati oppure iper-radicati, ma quando questa situazione diventa più o meno permanente, la qualità di vita diminuisce.
Attraverso esercizi possiamo esplorare le nostre risorse somatiche, acquisire consapevolezza e – mediante il nostro corpo – modificare emozioni e pensieri.

Tratto da Psicoterapia Sensomotoria di Pat Ogden e Janina Fisher, Raffaello Cortina Editore, Milano  2016 (pag. 247)